22 diciembre 2007

La lotta per l'assenza di Gianni Amelio



Il cinema di Gianni Amelio è detto "il cinema dei sentimenti", ma la definizione può ingannare. In realtà è un viaggio. A partire dal suo. Amelio è cresciuto in una famiglia di sole donne, il padre è emigrato quando aveva solo due anni, e nei suoi film si riflette quella mancanza di una figura paterna. Il viaggio è quella continua ricerca, quella "lotta per l'assenza".

Lui racconta di individui e delle loro ricerche, in cui i sentimenti sono raccontati senza enfasi, senza essere urlati, ma in modo freddo e terribile, con gran pudore e grande forza. Esempio è il film Così ridevano, in cui la massima crudeltà sta in ciò che non si dice e non si fa.

Ascoltarlo, vuol dire imparare molto sul cinema. Forse perché è un ex insegnante. Prima alle scuole medie e poi al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma. E continua ad insegnare ogni volta che parla ad un pubblico. "Se volete fare cinema iniziate a scrivere, vedete un film e dite cosa ne avete ricavato". Scrivere, leggere, insomma: studiare. Lo ha fatto anche lui. "A 12 anni già leggevo la rivista Cinema Nuovo", grazie a cui scoprì il cinema indiano di Satyajit Ray, la scrittura asciutta e l'indagine nello sguardo della macchina da presa che tutt'oggi definisce il suo "cinema ideale". Forse è questo il punto di forza di Amelio, il suo innamoramento nei confronti del cinema. Amelio è profondamente cinefilo, non (solo) cineasta. Anzi, dice di odiare i cineasti, anche se lo è stato nella sua prima fase. Ecco, il suo secondo punto di forza è quel trovarsi di mezzo, tra la prima generazione di registi e la terza, tra il classicismo e il cinema moderno, è quella libertà di prendere linguaggi diversi per crearne uno proprio. E l'intervallo tra un film e un altro non è silenzio, è ricerca di nuove forme di linguaggio.

E' uno che fa un film solo quando sente di doverlo fare, perché per lui il cinema è soprattutto un piacere. Tanto da snobbare la classica formazione cinematografica. "Consiglio a chi non è già stato infettato dal virus del cinema, di non iniziare dai classici. Nel dna dei classici c'è una componente pensosa, non ludica. Se volete iniziare, andate in un cinema e scegliete una cosa di genere, un genere che vi attrae. E non vedete un film solo perché qualcuno vi ha detto che è importante, altrimenti dopo quattro cose importanti uno si vota alla televisione". Scherza. Forse. Fatto sta, continua, "che il 99% dei debutti sono segnati da una presunzione di predica che ha allontanato il pubblico".

Insegnare e non predicare, è questa la sua aspirazione. "L'idea del sapere che la scuola dovrebbe dare è il filo rosso che attraversa tutti i miei film." Parla di un regista che definisce "bravo" ma che "ha fatto solo tre film e li ha presentati come una trilogia". E' inutile, Amelio odia i saccenti. I film non deve dirci delle verità, ma porre domande, e l'autore non deve farlo troppo con la testa, giusto quel che ci vuole, il resto "deve essere fatto con le viscere, addirittura con gli organi genitali. Non dobbiamo più vergognarci di parlare di tutto quello che sta sotto il cuore, perché siamo fatti di carne e sangue e ci rivolgiamo ad esseri fatti di carne e sangue come noi. L'individuo non è di carta". Ecco perché sceglie "attori dalla vita o la vita dagli attori".
Il regista, per lui, "è una levatrice come Socrate, che ti aiuta a venire al mondo. Ma poi tocca a te respirare". Si sente levatrice proprio perché da vita ai personaggi "senza spiattellare sentenze". E il regista che considera un maestro è Michelangelo Antonioni. "Di Antonioni apprezzo il coraggio della non retorica quando parla della classe operaia, in rapporto non ai problemi ma ai sentimenti". Una classe operaia che non è più massa ma insieme di persone". Il paragone con il suo film La stella che non c'è è immediato. "L'operaio di Antonioni si uccide, il mio piange per 3-4 minuti senza che apparentemente ci sia un motivo. Piange proprio quando raggiunge ciò che voleva, quella vittoria che poi alla fine è una vittoria di Pirro". Il film del 2006 con Sergio Castellitto ha anche una radice letteraria, La chiave a stella, opera di Primo Levi che ha come protagonista un altro operaio, e il cui libro apparire in una delle scene del film di Amelio.
Alla fine parla della situazione odierna. E torna a galla l'insegnante che c'è in lui. "Faccio parte di una commissione che si batte perché tutte le scuole, dalle elementari al liceo, possano avere 100 dvd da consultare come si fa coi libri in biblioteca". Bisogna guidare i ragazzi alla conoscenza del cinema, perché oggi il è fatto con armi improprie. "Se ai miei tempi c'era la caméra-stylo, oggi siamo arrivati al cellulare-stylo. Mai confondere il mezzo col messaggio. Guai a sentirsi registi solo perché si ha un cellulare, bisogna imparare ad esprimersi con quel cellulare".
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La filmografia di Gianni Amelio la trovate qui
Per "La stella che non c'è" andate qui
Per una versione più "personale" di questo articolo, visitate il mio blog
il cannocchiale

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